Tradizioni popolari legate al rito della macellazione

Sua Maestà il Maiale nella cultura popolare

Valceno in Tavola

Tradizioni popolari legate al rito della macellazione

 

Del maiale non si butta via niente

“Del maiale non si butta via niente!”  Nella bassa Parmense si aggiunge a ciò “ come della musica di Verdi!” E come la musica di Verdi il maiale fa parte di noi, della nostra cultura, delle nostre terre; come la musica  il maiale accompagna la quotidianità, aggrega offrendosi  in superlativi banchetti, stimola appetiti, invoglia a curiosità culinarie, a sperimentare gusti nuovi, sazia palati raffinati , colma appetiti insaziabili.

 Il maiale è una sicurezza, una garanzia, è un amuleto di abbondanza, un buon auspicio per chi lo alleva, un piacere per chi lo assaggia un privilegio per chi lo conosce. Le sue carni sono ricche , gustose e nutritive, i suoi salumi sono gradevoli, profumati e saporiti. Il maiale era una tranquillità per le famiglie contadine , era una eredità certa per l’inverno, un biglietto, quasi una dote.
La macellazione del maiale era attesa come un rito,  il peso della bestia era l’orgoglio del capofamiglia, il rendimento delle carni  un vanto, una giustificata fierezza. Nei periodi di grande carestia era una ricchezza, era invidia per chi godeva di questo beneficio;  poter contare anche sugli scarti delle carni era una valida alternativa alla fame assicurata.

 Il maiale è quindi tradizione, è storia, è cultura popolare, patrimonio delle nostre terre , intorno a lui il nostro territorio ha fondato le basi dell’economia, attraverso le sue carni la nostra terra  ha diffuso l’arte del mangiar bene,  è tramite la cultura il maiale che spesso viene identificata la nostra vallata.

E’anche  per questo motivo che in occasione del quindicesimo anno dalla nascita del “ValCeno in tavola” la Pro-Loco di Varano Melegari ha deciso  di dedicare il calendario 2009 al “Rè delle carni e della tavola”, a “Sua Maestà Il Maiale”, alle sue origini, alle sue curiosità, alle ricette più caratteristiche ed a tutto ciò che significa ed ha significato per la cultura popolare del nostro territorio. 

 

La macellazione del maiale: rito, tradizione, necessità

 

La macellazione è un rito antico legato ad un mondo ormai quasi in via d’estinzione, un mondo contadino strettamente legato alla terra ed ai suoi frutti, che segue il ritmo naturale del tempo e delle stagioni e conosce il sacrificio e la fatica del duro lavoro quotidiano. Nella cultura contadina del nostro territorio, l’uccisione del maiale assume un forte valore simbolico ed è un momento di sentita aggregazione sociale. E’ un giorno di festa lungamente atteso, nel quale, finalmente, si raccolgono i sospirati frutti di mesi e mesi passati amorevolmente ad allevare, nutrire e curare il maiale, nella certezza che, anche da quelle giornaliere attenzioni, dipendesse la bontà e l’abbondanza delle sue carni. E’ un giorno che i bambini attendono con paura e trepidazione, consapevoli che assistere all’uccisione del maiale è come una sorta d’iniziazione. E’ un giorno dove si sacrifica un essere simpatico e grufolante quasi divenuto, ormai, membro della famiglia: il maiale. Ma il momentaneo dispiacere per la perdita è ben ricompensato dalla quantità di carne e di lardo. 

La tradizione vuole che la macellazione avvenga con i primi rigori invernali: i mesi più propizi sono Novembre, Dicembre e Gennaio, le rigide temperature, infatti, raffreddano ed asciugano più velocemente la carne e, di conseguenza, favoriscono una più efficace e veloce lavorazione.

E’ consigliato che l’animale abbia compiuto almeno dodici mesi, così che la carne sia più matura e ricca  di gusto e sostanza.

Il consumo del maiale segue sempre un iter cronologico dall’uccisione alla fine dell’anno: subito dopo la macellazione vengono consumati sanguinacci, ossa bollite, cicciolata, poi in successione salsicce e cotechini, a carnevale si assaggia il primo salame, a fine estate la pancetta poi le coppe e vicino alla fine dell’anno prime le spalle e poi il prosciutto. 

 

 

Tradizioni popolari: ...ma il Norcino chi è?

 

Le origini del NORCINO:

Norcino, nel significato proveniente da Norcia, è un termine che in epoca medioevale fù dato in senso dispregiativo per indicare una delle figure minori che si erano sostituite a quella del chirurgo. Il norcino , infatti, insieme al cerusico, al cava-denti, al concia-osse, costituì, spesso riunendosi a gruppi di figure di ambulanti che in giro per i villaggi e per le campagne , si prestavano a praticare piccoli interventi chirurgici.Era l’epoca in cui la Chiesa osteggiava ogni attività cruenta relativamente all’aspetto medico, perchè era stato sancito in alcuni Concili che “ Ecclesia abhorret a sanguine” 

I norcini conosciuti anche nell’antica Roma come esperti nell’arte di castrare i porci e lavorarne le carni, avevano una notevole abilità manuale che li rendeva idonei anche a piccoli interventi quali incidere ascessi o cavare denti o steccare qualche frattura. Alcuni di essi dimostrarono anche notevole abilità in tecniche innovative che li spinsero a interventi maggiori,quali asportazione di tumori o interventi per ernia o cataratta, e furono anche molto richiesti per la castrazione dei bambini che dovevano essere avviati alla carriera lirica o teatrale come voci bianche, ma naturalmente ciò non potè evitare la scarsa considerazione di cui godettero in campo medico.

Dal XII al XVII se. ci fu un forte sviluppo dei mestieri legati alla trasformazione di carni suine , fra questi s’affacciò  la figura del “norcino”. Col tempo tali professionisti iniziarono ad organizzarsi in corporazioni o confraternite, andando a ricoprire importanti ruoli all’interno della società e creando nuovi prodotti di salumeria. A Bologna c’era la Corporazione dei Salaroli, mentre nella Firenze de’Medici nacque la compagnia dei facchini di S.Giovanni .

La loro attività era stagionale, in quanto il maiale veniva ucciso una volta all’anno d’inverno. Lasciavano le loro case ai primi di ottobre e vi ritornavano verso la fine di marzo quando nel periodo estivo si trasformavano in venditori di paglia o d’articoli d’orticoltura. 

 

Ogni norcino aveva un garzone a suo servizio che, con il passare degli inverni proseguiva nella carriera: da garzone a spellatore ad insaccatore e così via nel lungo cammino della norcineria. Si racconta di una lettera che un apprendista norcino aveva inviato alla famiglia insieme a salsicce , con cui la informava della sua carriera: 

“ Cari genitori, vi mando queste poche salsicce fatte con le mie mani di porco, il padrone per adesso mi fa spellare ma a Pasqua mi ha promesso che mi farà scannare..” 

 

 

Tradizioni contadine: gli attrezzi del norcino

 

Il norcino arrivava alla fattoria il giorno prima a depositare gli attrezzi più ingombranti nella zona adibita alla macellazione: la macchina macina-carne con gli insaccatori, le mannaie di varie misure, e verificava che la famiglia avesse preparato i locali giusti per la lavorazione, che la legna per il fuoco fosse quella adatta, che le travi fossero predisposte di ganci per appendervi i salumi.

La massaia nei giorni precedenti avrebbe comprato le spezie per i salumi, ma non prima di aver chiesto al norcino quali e in quale quantità dovessero essere: sale fino e grosso, pepe nero in grani, pepe bianco macinato,salnitro. In casa poi non doveva mancare aglio, cipolle, vino bianco, alloro, ago e filo per cucire i budelli  La famiglia , doveva essere provvista di altri ausili per la macellazione e  lavorazione della carne quali: la brocca per l’acqua bollente, il paiolo di rame 

( caldera ), i bastoni per lo strutto, la bilancia grossa ( stadera ) e quella piccola per le spezie,  la fornace( fugòn ),  le carrucole e la forca per appendere il maiale per poi essere squartato, lo scalone a slitta per trascinare il maiale morto dal porcile alla zona di macellazione, il telo per i ciccioli e la cicciolata, un grande tagliere ( tavlas) il grembiule( scusalèta) preferibilmente a righe rosse. 

Il norcino non lasciava mai incustodito, anche per una sola notte il suo corredo personale: 

la sporta di foglie di granturco  contenente gli stiletti ( curadùr) ,una mannaia,  due coltelli con lame di diversa lunghezza, un acciaino, i raschietti per pelare il maiale, gli uncini per asportare le unghie, un astuccio porta aghi per la legatura degli insaccati .Di questi il norcino non se ne liberava mai, erano i suoi compagni di lavoro che, associati agli altri gli permettevano di portare a termine la macellazione del suino. A volte, vedendolo arrivare si notava che nell’altra mano, quella che non sosteneva la sporta, imbracciava, come fosse un fucile, il rampone, la prima arma con la quale il maiale veniva a contatto, ancora nel porcile, l’uncino che lo infilzava sotto al muso e sottoposto alla forza del norcino lo tirava fuori e con lo stiletto ( curadur) lo pugnalava al cuore. 

 

Alberto Bevilacqua, sul “ Corriere della sera”, descrive questo momento con un’immagine pittoresca, che curiosamente rievoca la drammaticità della corrida spagnola:

“... il maiale avanza, si guarda ferocemente intorno, e mentre vorrebbe far marcia indietro, ritrovando il conforto dei compagni, un istinto vendicativo, più forte del terrore, lo induce ad identificare ed aggredire la morte nella figura del norcino che, distante una ventina di metri, lo aspetta col rampone nella sinistra, lo stiletto nella destra. La bestia, allora, s’acceca e scatta in una corsa suicida. Il norcino dev’essere lesto a immergergli il rampone nella gola, e a stilettarlo al cuore. Basta un appannamento di riflessi per finire dilaniato come un torero; il maiale inferocito è anche più implacabile del toro.” 

 

 

Il ricordo di un norcino varanese:  “Rino”

 

…a ripensarci, tornando indietro con la memoria penso proprio che quei tre giorni di ogni anno fossero vissuti da me con l’attesa quasi di un rito.

Il risvegliare questi ricordi porta alla mente una serie di emozioni , di odori, di sapori di difficile trasformazione in parole scritte, ne questo foglio basterebbe per elencarle con l’intensità  con cui li vivono e li vedono gli occhi di un bambino.

 

Era quasi sempre Dicembre quando si decideva insieme a Rino, tenendo conto della sua disponibilità, di uccidere il maiale. Rino era il nostro norcino e quando dico “nostro” è perché diventava in quei giorni il fulcro attorno al quale ruotava completamente l’organizzazione della quotidianità famigliare, era la persona di fiducia, la garanzia di avere una buona riuscita nella conservazione delle carni.

La preparazione dell’evento iniziava giorni prima. Il nonno preparava la legna per il fuoco; doveva essere quella giusta, quella che mantenesse il calore costante per la cottura dello strutto nel grande paiolo di rame che noi chiamavamo “caldera” e che la mamma lucidava accuratamente il giorno prima con il sale grosso e l’aceto di vino per evitare che l’ossido nero del rame contaminasse lo strutto e lo rendesse sgradevole al palato.

Con vecchi bidoni di latta venivano costruite rudimentali stufe che sarebbero poi servite a scaldare l’acqua e cuocere lo strutto e la cicciolata.

Si preparava la scala per far slittare il maiale già morto dal porcile all’area cortilizia  allestita appositamente ed i pali di legno con gli uncini di ferro per appenderlo dopo che Rino lo avesse pelato e lavato, per procedere alla macellazione.

Si compravano le spezie che Rino ordinava scrupolosamente nelle quantità giuste, il pepe nero in grani, il pepe bianco in polvere, il sale grosso e altre spezie che il droghiere piegava abilmente nella carta marrone o nella carta oleata ed aggiungeva sempre due pani di corda fine e grossa per confezionare gli insaccati.

Dagli armadi si recuperavano le pezze di stoffa necessarie, i canovacci a righe rosse e bianche, i grembiuloni per il norcino, il tovagliato per la carne cruda dei salami, la pezza di stoffa da casaro che serviva per filtrare la cicciolata.

La mamma ci mandava a prendere l’alloro dall’Elvira perché doveva essere pronto insieme all’aglio e al vino bianco in modo che non mancasse niente quando Rino ne avesse avuto bisogno.

Tutti i vicini sapevano che erano i nostri giorni; alcuni addirittura si liberavano dagli impegni per essere disponibili qualora fosse stato necessario un aiuto oppure anche solo per venire a vedere “ che bella carne” o “ quanto sarà stato di peso” e per vivere insieme quel momento, rinnovare la tradizione e forse anche solo per bere quel bicchiere di inebriante vino rosso che non poteva mai mancare sui tavolacci di legno insieme agli attrezzi del mestiere.

Noi bambini tutte queste cose le sapevamo bene, erano le stesse tutti gli anni, eppure ogni anno era come se fosse la prima volta, tanta era l’attesa.

Rino arrivava a piedi alle cinque di mattino con una cartella di cuoio marrone contenente tutto il necessario; la maggior parte delle volte c’era la neve e lungo la strada si vedevano solo le sue impronte visto che la corriera non era ancora passata.

Quando arrivava  l’acqua doveva già bollire sul fuoco,era il segnale che tutto era pronto. In tre o quattro uomini andavano su verso il porcile; noi bambini non potevamo assistere alla uccisione anzi, nascondevamo la testa sotto i cuscini per non sentire il latrato della bestia agonizzante che solitamente non durava molto visto che il norcino sapeva dove colpire con precisione per far soffrire l’animale il meno possibile.

Aspettavamo il silenzio assoluto poi ci alzavamo da letto e tutti imbacuccati per il freddo delle prime ore del mattino scendevamo in cortile, dove sulla scala trainata con corde slittava il corpo dell’animale che veniva subito scottato con acqua bollente e pelato delle spesse setole bianche che si perdevano fra la ghiaia del cortile.

Dopo una prima grossolana divisione delle carni, era il momento della prima pausa in cui in cucina veniva servita una prima colazione , sempre la solita e solo in questa occasione , era una zuppa di pane raffermo bagnato con brodo di verdura bollente.

Mentre davanti alla zuppa fumante si intavolavano discorsi legati a ricordi ed avventure dei commensali, noi bambini approfittando dell’assenza degli uomini, ci avvicinavamo alla carcassa del maiale per fare a gara a chi fosse riuscito a toccare l’occhio o l’orecchio e per curiosare le interiora in tutta libertà.

Rino poi con molta pazienza ci spiegava ogni gesto e rispondeva ad ognuna delle nostre innumerevoli domande con competenza e con molta ironia, trasformando ogni momento del suo lavoro quasi in un gioco; ogni anno al momento dell’insaccatura dei salami girando la manovella del suo tritacarne ripeteva con sguardo serio : “ bambini, sapete cosa succederebbe se mi sbagliassi e girassi la manovella in senso contrario? “ noi conoscevamo bene la risposta ma ugualmente lo guardavamo con aria interrogatoria e preoccupata “ se per caso io mi sbagliassi, la carne tornerebbe fuori dal tritacarne, si riattaccherebbe alle ossa, le ossa  ai muscoli e così via e… il maiale improvvisamente tornerebbe vivo ed inizierebbe a correre sui tavoli…” e poi la frase non finiva mai perché tutti  scoppiavano in una scrosciante risata guardando i nostri visi fintamente spaventati.

Penso che si facesse molto in questi momenti per coinvolgere i bambini e renderli partecipi all’evento anche perché solo dopo anni ho scoperto che alcune cose venivano fatte non per dovere, ma solo per accontentarci e farci pensare essere indispensabili per la buona riuscita della macellazione. Rino ci faceva preparare una pallina di carne di salame legata con una corda e ce la faceva immergere completamente  nella “caldera” di strutto bollente fino a che non era cotta; noi pensavamo fosse la prova per misurare il calore dello strutto, ma in realtà era solo per vederci impegnati e desiderosi  di essere di aiuto, valutando  la cottura della nostra “polpetta”.

I grandi forse dinnanzi a questi momenti si scambiavano sguardi accondiscendenti, io non mi  accorsi mai di nulla.C’era tempo per tutte queste cose.

C’era tempo per rispondere alle domande dei bambini, per insegnare loro elementari lavori manuali, c’era voglia di scherzi e di risate anche fra adulti.Ogni anno si ricordavano episodi dell’anno precedente, di quella volta che Nello aveva nascosto un prosciutto o di quando nel cucire i “budelli” ci eravamo cucite il grembiule e si stava fino a tarda ora a tavola, in cucina insieme.

 

Alla fine della seconda giornata  tutto era finito, Rino raccoglieva i suoi attrezzi nella cartella di cuoio marrone e a piedi si dirigeva verso casa; la mattina successiva sarebbe stato il turno di un’altra famiglia , in un altro cortile. 

 

 

AL  STàBI ( il porcile)

 

Nell’angolo più appartato della casa colonica, a volte sotto al forno, possibilmente in prossimità di un canale di scolo in cui far affluire i maleodoranti scarichi , preferibilmente circondato da vegetazione, sorgeva  il porcile. In sasso o in mattoni a vista, il porcile era  una struttura curiosamente riconoscibile da alcune caratteristiche che lo differenziavano dagli altri stabili della fattoria.                                                                                                    L’uscio del porcile non superava il metro e venti di altezza. Al lato , sporgente dal muro uno scivolo di pietra che permettesse di versare il cibo al maiale senza entrare nella struttura. Piccoli finestrini rettangolari lasciavano intravedere a volte  il muso della bestia, che attirato dalla fioca luce che lasciavano penetrare, cercava inutilmente una via d’uscita. Il porcile era sempre pulito e lavato a dovere , cosparso di paglia in cui il maiale dormiva al riparo dai reumatismi che gli avrebbero causato un probabile azzoppamento e quindi una fine anticipata.

A volte, se lo spazio lo consentiva, attiguo al porcile veniva predisposto un recinto in cui il maiale amava  soggiornare e cospargersi di fango, questo lo aiutava a combattere gli eventuali acari della pelle o fastidiosi insetti che lo aggredivano.

Nel porcile il maiale veniva ospitato dal momento in cui veniva allevato dal contadino  fino al giorno della macellazione , nei primi rigori invernali in cui il norcino, con l’aiuto degli uomini di 

casa , dal porcile lo trasferivano nell’aia  per il rito dell’uccisione.

 

 

LA ZòTTA ( pastone )

Era solitamente la donna della famiglia nella civiltà contadina ad occuparsi dell’alimentazione del maiale.  Lo faceva al mattino, quando l’uomo di casa si recava nella stalla per la cura delle altre bestie. Lo faceva tutti i giorni per circa un anno esclusa la Domenica,  quando il maiale digiunava; si seguiva da sempre questa tradizione, la Domenica i maiali non mangiavano mai, forse perché lo richiedeva il loro apparato digerente, forse invece il digiuno era quasi un rito religioso affinchè affiancasse  la vita spirituale della famiglia.

La massaia ben sapeva che l’elemento essenziale che avrebbe determinato la buona qualità della carne, il suo profumo, la sua gradevolezza e la buona riuscita del delicato processo della stagionatura, era l’alimentazione.

La massaia si alzava di buon ora al mattino e riscaldava l’acqua nella piccola fornace in cortile, poi con competenza e maestria tramandata dai vecchi di casa, preparava una accurata miscela ( la zòtta )a base di farina di mais e orzo ( al farinàs ) , i nobili cereali, che presenti in grande percentuale avrebbero consentito al suino di accrescere il suo peso in modo armonioso, nonché crusca ( rùmel ) e farina di soia che conferivano alla carne inimitabili aromi e profumi.                                                                                                    La massaia sapeva che se all’acqua calda avesse aggiunto una percentuale di siero di latte, la carne avrebbe acquistato gusto e sostanza. La zòtta veniva impastata con le mani, le quali  mentre impastavano e disgregavano gli eventuali grumi di farinacei, controllavano che la temperatura dell’acqua fosse quella giusta . La miscela veniva gettata attraverso uno scivolo dall’esterno del porcile, nella mangiatoia interna (èrbi )

Era importante in campagna, quando lo stile di vita comportava un maggiore dispendio di energie, ricavare dalla macellazione del maiale, molto strutto e lardo; era quindi uso ingrassare bene l’animale allo scopo di ottenere una carne con una buona copertura di grasso che, oltre a garantire la fornitura di calorie necessarie al faticoso lavoro dei campi, proteggeva la carne durante la stagionatura.

Un maiale magro nel porcile sarebbe stato di cattivo auspicio, e un salume senza infiltrazioni di grasso sarebbe stata una imperfezione imperdonabile. E allora la “ zòtta “ veniva alternata a mele schiacciate, ghiande ed erba medica,  in modo tale che apportassero al maiale vitamine e Sali minerali, e fossero di aiuto a favorire la digeribilità durante i 12 mesi circa di ingrasso, prima della macellazione.Non mancavano mai gli scarti della cucina recuperati durante il lavaggio dei piatti e delle pentole con la rolex replica crusca.

 

 

 

 

 

Articolo inserito il 01/01/2010

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